venerdì 20 luglio 2007

SPERIMENTAZIONE ANIMALE DISPENDIOSA ED INATTENDIBILE


Neal D. Barnard e Stephen R. Kaufman
L'impiego di animali nella ricerca e nei test è solo una delle numerose procedure di indagine disponibili. Secondo noi la sperimentazione animale, pur essendo talvolta promettente dal punto di vista teorico, non è molto adatta ad affrontare i problemi sanitari più gravi come quelli relativi alle malattie cardiovascolari, al cancro, agli ictus, all'AIDS e alle malattie congenite. In molti casi gli esperimenti sugli animali possono fuorviare i ricercatori o addirittura possono causare la malattia o il decesso di pazienti non essendo idonei a far prevedere gli effetti tossici che i farmaci possono avere nell'uomo. Fortunatamente si può ricorrere a metodi più affidabili, che rappresentano un investimento assai migliore dei fondi di ricerca.
I primi passi di una scoperta scientifica coincidono spesso con osservazioni inaspettate, che costringono i ricercatori a riconsiderare le teorie esistenti e a formulare ipotesi che spieghino meglio i loro dati. Molte delle anomalie osservate negli esperimenti sugli animali sono, invece, dovute semplicemente alla peculiare fisiologia della specie in esame, ai mezzi innaturali con i quali la malattia è stata indotta o all'ambiente stressante del laboratorio. Situazioni del genere sono estranee alla patologia umana e verificare le ipotesi tratte da queste osservazioni è una perdita di tempo e danaro.
Gli animali vengono prevalentemente utilizzati in laboratorio come "modelli": mediante manipolazione genetica, interventi chirurgici o iniezione di sostanze estranee, i ricercatori producono in essi patologie che costituiscono un modello delle condizioni umane. Questo paradigma della ricerca e però irto di difficoltà. Le pressioni evolutive hanno prodotto sottili, ma significative, differenze tra le specie. Ogni specie ha molteplici sistemi di organi che hanno interazioni complesse. Uno stimolo applicato a un particolare sistema di organi perturba l'insieme delle funzioni organiche secondo modalità spesso imprevedibili. Questa incertezza mina gravemente la possibilità di estrapolare i dati ottenuti con un animale ad altre specie animali uomo compreso.
Risultati fuorvianti ottenuti in esperimenti sugli animali hanno in molti casi addirittura ritardato i progressi in campo medico. David Wiebers e collaboratori della Mayo Clinic, descrissero nel 1990 sulla rivista &laqno;Stroke» uno studio in cui si dimostrava che su 25 composti in grado di indurre nei roditori, nei gatti e in altri animali il danno da ischemia cerebrale nessuno risultava efficace nell'uomo. Essi attribuirono questi risultati deludenti a disparità tra il modo in cui gli ictus si manifestano naturalmente nei soggetti umani e il modo in cui essi sono stati indotti sperimentalmente negli animali. Per esempio, un animale sano colpito da un ictus non subisce quel danno progressivo delle arterie che svolge generalmente un ruolo cruciale negli ictus che colpiscono i soggetti umani. Negli anni venti e trenta, gli studi sulle scimmie portarono a grossolani errori di valutazione, che causarono ritardi nella lotta contro la poliomielite. Quegli esperimenti indicavano che il poliovirus infettava principalmente il sistema nervoso; in seguito, si stabilì che ciò avveniva perché i ceppi virali somministrati per via nasale avevano sviluppato artificialmente un'affinità per il tessuto cerebrale. La conclusione errata, che contraddiceva i precedenti studi sull'uomo, secondo cui la via primaria di infezione era il sistema gastrointestinale, fece indirizzare male le misure preventive e ritardò la produzione di un vaccino. Nel 1949 la ricerca su cellule umane in vitro dimostrò per la prima volta che il virus poteva essere coltivato su tessuti non nervosi, prelevati dall'intestino e dagli arti. Ma ancora agli inizi degli anni cinquanta, venivano utilizzate per la produzione di vaccini cellule di scimmie; di conseguenza, milioni di individui furono esposti a virus delle scimmie, potenzialmente dannosi.
Un'ulteriore dimostrazione dell'inadeguatezza della ricerca sugli animali si ebbe negli anni sessanta. Gli scienziati dedussero da numerosi esperimenti su animali che il fumo di tabacco inalato non causava carcinomi polmonari (in realtà il catrame, spalmato sulla cute dei roditori, faceva sviluppare tumori, ma questi risultati furono giudicati meno importanti degli studi sul fumo inalato). Per molti anni ancora la lobby del tabacco riuscì a sfruttare questi studi per ritardare i provvedimenti governativi e per scoraggiare i medici dall'intervenire nelle abitudini dei loro pazienti riguardo al fumo.
Come è ben noto, gli studi sulla popolazione umana hanno fornito prove inequivocabili sulla connessione tra cancro e tabacco e recenti ricerche sul DNA umano hanno permesso di identificare il "bersaglio" del fumo da tabacco, dimostrando come un derivato della sostanza cancerogena benzopirene prenda di mira i geni umani, provocando il cancro.
La ricerca sul cancro ha messo in particolare evidenza le disparità tra fisiologia degli esseri umani e fisiologia degli altri animali. Molti tra questi, particolarmente ratti e topi sintetizzano nel loro organismo circa 100 volte la quantità di vitamina C consigliata giornalmente per prevenire il cancro nell'uomo.
Lo stress che un animale subisce per il fatto di essere manipolato, messo in un ambiente ristretto e in isolamento altera la sua fisiologia e introduce un'ulteriore variabile sperimentale, che rende ancora più difficoltosa l'estrapolazione dei risultati agli esseri umani. Lo stress sugli animali in laboratorio può fare aumentare la suscettibilità a malattie infettive e a certi tumori, come pure può influenzare i livelli degli ormoni e degli anticorpi, i quali a loro volta possono alterare il funzionamento di vari organi.
Oltre che nella ricerca medica, gli animali vengono anche utilizzati in laboratorio per verificare l'innocuità di farmaci e altre sostanze chimiche. Anche in questo caso i test possono rivelarsi inutili o controproducenti in quanto in specie di verse danno spesso risultati contrastanti. Per esempio, nel 1988 Lester Lave della Carnegie Mellon University ha riferito, sulla rivista "Nature", che esperimenti condotti sia su ratti sia su topi, per verificare il potere cancerogeno di 214 composti, hanno dato risultati concordanti solo nel 70 per cento dei casi. A maggior ragione la correlazione tra roditori ed esseri umani dovrebbe essere più bassa. David Salsburg della Pfizer Central Research, utilizzando gli standard stabiliti dal National Cancer Institute, ha notato che, su 19 sostanze chimiche, note per essere cancerogene nell'uomo, solo sette causano il cancro nei topi e nei ratti.
In effetti, molte sostanze che sembravano sicure negli studi condotti sugli animali e che avevano ricevuto l'approvazione della Food and Drug Administration per essere utilizzate in soggetti umani, sono risultate, in seguito, pericolose. Il milrinone, un farmaco che fa aumentare la gittata cardiaca, accresce la sopravvivenza dei ratti affetti da un'insufficienza cardiaca indotta artificialmente. Invece, nei pazienti umani con una grave insufficienza cardiaca cronica la somministrazione dello stesso farmaco ha fatto registrare un incremento di mortalità del 30 per cento. La fialuridina, un farmaco antivirale, sembrava sicura nelle prove eseguite sugli animali, mentre ha causato grave insufficienza epatica in sette pazienti su 15 (cinque di essi sono morti a causa del trattamento e due sono stati sottoposti a trapianti di fegato). Agli inizi degli anni ottanta l'antidolorifico zomepirac era ampiamente usato ma, dopo essere stato implicato in ben 14 decessi e in centinaia di reazioni allergiche che avevano messo a repentaglio la vita dei pazienti, è stato ritirato dal commercio. La nomifensina, un antidepressivo con tossicità minima nei ratti nei conigli, nei cani e nelle scimmie, ha provocato negli esseri umani tossicosi epatica e anemia, effetti rari ma gravi, e talvolta fatali, che hanno costretto il produttore a ritirare il farmaco dal commercio pochi mesi dopo averlo introdotto nel 1985.
Questi terribili errori non sono semplici aneddoti. Il General Accounting Office statunitense ha passato in rassegna 198 nuovi farmaci dei 209 commercializzati tra il 1976 e il 1985 e ha trovato che, per il 52 per cento, essi presentavano "gravi rischi emersi dopo l'approvazione" e non previsti dai test sugli animali o su prove limitate, effettuate su esseri umani. Questi rischi sono stati definiti come reazioni avverse, che potevano portare al ricovero in ospedale, a invalidità o addirittura a morte. Come risultato, i farmaci suddetti hanno dovuto essere corredati da nuove istruzioni o ritirati dal commercio. E, naturalmente, non è possibile stimare quanti farmaci, potenzialmente utili, siano stati abbandonati sulla base di test fuorvianti.
I ricercatori hanno a disposizione metodi migliori dei test sugli animali: studi epidemiologici, sperimentazioni cliniche, osservazioni cliniche sostenute da test di laboratorio, coltura in vitro di cellule e tessuti, studi autoptici, esami endoscopici e biopsie, metodi di indagine per immagini. E l'epidemiologia molecolare, una scienza emergente che collega i fattori genetici, metabolici e biochimici a dati epidemiologici sull'incidenza delle malattie, promette di diventare uno strumento prezioso per identificare le cause delle malattie umane.
Si consideri il successo delle ricerche sulle malattie cardiovascolari. Le prime indagini epidemiologiche compiute su esseri umani hanno evidenziato i principali fattori di rischio per la malattia cardiaca, tra cui l'alto tasso di colesterolo, il fumo e l'ipertensione arteriosa. I ricercatori hanno quindi agito su questi fattori in prove controllate, eseguite in soggetti umani, per esempio nel multicentrico Lipid Research Clinics Trial, realizzato negli anni settanta e ottanta. Questi studi hanno illustrato, tra le molte altre cose, che abbassare dell'1 per cento il tasso di colesterolo ematico riduceva di almeno il 2 per cento il rischio di malattia cardiaca. I risultati delle autopsie e gli esami biochimici hanno chiarito l'esistenza di ulteriori legami tra fattori di rischio e malattia, indicando che i soggetti con diete a elevato contenuto di grassi subiscono precocemente, nel corso dell'esistenza, alterazioni a carico delle arterie. E studi su pazienti con malattie cardiache hanno indicato che, adottando una dieta vegetariana a basso contenuto di grassi, effettuando esercizio fisico regolare, interrompendo l'abitudine al fumo e controllando lo stato di tensione, le placche aterosclerotiche possono diminuire.
Analogamente, studi sull'infezione da HIV effettuati sull'uomo hanno chiarito come viene trasmesso il virus e hanno indirizzato i programmi di intervento. Ricerche in vitro con cellule e siero umani hanno permesso di identificare il virus dell'AIDS e di capire come provochi la malattia Gli studi in vitro sono stati utilizzati anche per stabilire l'efficacia e l'innocuità di importanti farmaci contro l'AIDS, come l'AZT, il 3TC e gli inibitori delle proteasi. Dalle indagini su soggetti umani stanno anche emergendo nuove ipotesi come quelle relative all'esistenza di fattori genetici e ambientali che contribuiscono a determinare la malattia o conferiscono resistenza a essa.
Certamente sono molti gli animali utilizzati nella ricerca sull'AIDS, ma senza grandi risultati tangibili. Per esempio, gli studi sulle scimmie, di cui si è tanto parlato e che si sono serviti del virus dell'immunodeficienza delle scimmie (SIV) in condizioni innaturali, hanno fatto ritenere che il sesso orale comporti un rischio di trasmissione. Non hanno contribuito però a chiarire se con questa modalità l'HIV venga o meno trasmesso nei soggetti umani. In altri casi, gli studi su animali hanno fornito informazioni già note attraverso altri esperimenti. Nel 1993 e 1994 Gerard J. Nuovo e collaboratori alla State University di New York a Stony Brook hanno determinato il percorso effettuato nel corpo femminile dall'HIV (il virus attraversa le cellule della cervice e passa, quindi, ai vicini linfonodi), utilizzando studi su campioni di cervice e di linfonodi umani. In seguito, gli sperimentatori della New York University hanno introdotto il SIV nella vagina di femmine di reso, quindi hanno ucciso e dissezionato questi animali; il loro lavoro, pubblicato nel 1996, è giunto alla stessa conclusione circa il percorso compiuto dal virus rispetto ai precedenti studi condotti su soggetti umani.
Le ricerche sulle malattie congenite si sono basate molto sulla sperimentazione animale, dimostrando tuttavia una scarsa capacità di previsione riguardo all'uomo. L'incidenza della maggior parte delle malattie congenite è in costante aumento. Servono studi epidemiologici per risalire ai possibili fattori genetici e ambientali associati a questo tipo di infermità, proprio come gli studi sull'uomo hanno permesso di collegare il carcinoma polmonare al fumo e le malattie cardiache al colesterolo. Queste indagini hanno già fornito informazioni di vitale importanza (l'individuazione della connessione tra alterazioni del tubo neurale e carenza di acido folico e l'identificazione della sindrome fetale da alcool). Tuttavia, sono indispensabili altre ricerche sull'uomo.
Le osservazioni su soggetti umani si sono dimostrate di incalcolabile importanza anche nella ricerca sul cancro. Parecchi studi hanno dimostrato che i pazienti affetti da questa malattia, che seguono diete povere di grassi e ricche di ortaggi e frutta, vivono più a lungo e hanno minor rischio di recidive. Dobbiamo ora verificare quali diete specifiche siano più utili nei vari tipi di cancro.
La questione di quale ruolo abbia avuto la sperimentazione animale in passato non ha importanza per quanto riguarda l'attuale ricerca o il controllo dell'innocuità di un trattamento. Prima che fossero elaborate le tecniche di coltura in vitro, gli animali erano usati abitualmente per ospitare agenti infettivi. Vi sono oggi poche malattie per le quali si procede ancora così: i metodi moderni per la produzione di vaccini sono più sicuri ed efficaci. I test di tossicità per valutare l'effetto dei farmaci sono stati in gran parte sostituiti da test di laboratorio sofisticati, senza la partecipazione di animali.
I "modelli" animali sono, nel migliore dei casi, una buona imitazione delle condizioni umane, ma nessuna teoria può essere approvata o respinta sulla base di un'analogia. Cionondimeno, quando si discute sulla validità di teorie contrapposte in medicina e in biologia si citano spesso come prova gli studi condotti su animali. In un contesto di questo tipo, gli esperimenti sugli animali servono, in primo luogo, come accorgimento retorico. E, utilizzando differenti tipi di animali in differenti protocolli, gli sperimentatori possono trovare prove a sostegno di qualunque teoria Per esempio, si sono utilizzati esperimenti sugli animali sia per provare sia per negare il ruolo cancerogeno del fumo.
I famosi esperimenti di Harry Harlow sulle scimmie, realizzati negli anni sessanta all'Università del Wisconsin, hanno comportato la separazione dei piccoli dalle madri e il mantenimento di alcuni di loro in isolamento per un anno. Essi hanno danneggiato i piccoli sul piano emotivo e sono solo serviti a dimostrare la necessità del contatto con la madre, un fatto già ben stabilito dalle osservazioni compiute su bambini in tenera età.
Chi svolge ricerche con animali difende il proprio lavoro citando il ruolo svolto nel passato dagli esperimenti sugli animali nei progressi compiuti dalla medicina. Queste interpretazioni sono spesso errate. Per esempio, i sostenitori dell'impiego di animali puntano spesso sul significato che questi hanno avuto nella ricerca sul diabete, mentre studi effettuati sull'uomo da Thomas Cawley, Richard Bright e Apollinaire Bouchardat, nei secoli XVIII e XIX, avevano già evidenziato l'importanza delle lesioni a carico del pancreas nel diabete. Inoltre, gli studi su soggetti umani, compiuti nel 1869 da Paul Langerhans, hanno condotto alla scoperta delle cellule pancreatiche che producono insulina. A dire il vero, bovini e suini sono stati, in passato, le fonti primarie di insulina ma oggi l'insulina prodotta attraverso le biotecnologie rappresenta l'agente terapeutico standard che ha rivoluzionato il modo in cui i diabetici riescono a convivere con la loro malattia.
Anche a proposito dei famigerati effetti del talidomide, qualcuno ha sostenuto che test su animali avrebbero potuto far prevedere le alterazioni provocate dal farmaco. Eppure la maggior parte delle specie utilizzate in laboratorio non presenta quel tipo di alterazione degli arti che si osserva nei figli delle donne che hanno assunto talidomide in gravidanza; ciò avviene solo nei conigli e in alcuni primati. In quasi tutti i test riguardanti le malattie congenite non è facile decidere se gli esseri umani sono più simili agli animali che sviluppano tare congenite o a quelli che non le sviluppano.
In questo articolo non abbiamo accennato alle obiezioni etiche alla sperimentazione animale. Negli ultimi decenni, gli scienziati hanno imparato ad apprezzare la grande complessità della vita degli animali, compresa la capacità di comunicare, le strutture sociali e i repertori emozionali. Ma anche le sole questioni pragmatiche dovrebbero bastare a spingere scienziati e Governi a dare una diversa destinazione ai fondi per la ricerca.

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